Rifiuti in plastica, nuova indagine di Greenpeace: Turchia discarica d’Europa e Italia tra i primi Paesi esportatori
Dove finiscono i rifiuti in plastica esportati dall’Europa? Per la maggior parte in Turchia, dove spesso vengono sottoposti a pratiche di smaltimento tutt’altro che rispettose dell’ambiente e della salute umana. Lo rivela una nuova ricerca internazionale condotta da Greenpeace. E purtroppo, il nostro Paese è tra i protagonisti di questa brutta vicenda, visto che si trova al quarto posto tra i cinque maggiori esportatori europei. Nel solo 2023, infatti, secondo i dati Eurostat, il Regno Unito ha esportato in Turchia 140.907 tonnellate di rifiuti in plastica, la Germania 87.109, il Belgio 74.141, l’Italia 41.580 e i Paesi Bassi 27.564.
Con la diffusione dei dati odierni, Greenpeace lancia una campagna per chiedere lo stop immediato di questa pratica dannosa per le persone e per l’ambiente, anche in vista dei nuovi negoziati per il Trattato globale sulla plastica, che si terranno dal 25 novembre al 1°dicembre a Busan, in Corea del Sud.
«Negli anni passati, le nostre ricerche sul campo hanno dimostrato che il suolo, l’aria e i corsi d’acqua della Turchia sono stati contaminati dai rifiuti in plastica importati dall’estero», dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. «È inaccettabile che Paesi come il nostro, anziché affrontare il problema alla radice e ridurre la produzione di plastica, continuino a spostare il proprio fardello sulle zone più vulnerabili del pianeta. Da cinque anni, la Turchia è diventata la discarica dell’Europa, e non può più sopportare questo peso».
L’aumento incontrollato dell’invio di rifiuti in plastica verso la Turchia – ma anche verso Malesia, Thailandia e Vietnam – è iniziato nel 2018, quando la Cina, fino ad allora prima destinazione globale di questa tipologia di rifiuti, ha deciso di bloccarne le importazioni. Da allora, la Turchia ha visto una crescita esponenziale dell’import da parte dei principali Paesi europei.
Nel 2023 la Turchia è stato il primo Paese di destinazione extra UE dei rifiuti in plastica italiani, seguita da Arabia Saudita, Stati Uniti, Svizzera e Yemen. Il trend è peraltro in continua ascesa: nel 2013, esportavamo circa 440 tonnellate di rifiuti plastici in Turchia, mentre nel 2023 i quantitativi erano pari a 41.580 mila tonnellate, quasi 100 volte in più. In altre parole, i camion contenenti rifiuti in plastica diretti in Turchia dall’Italia sono passati da quattro e mezzo al mese nel 2013 a 347 nel 2023.
Eppure, gli Stati membri dovrebbero, secondo la normativa europea, spedire i propri rifiuti plastici fuori dall’Unione esclusivamente per avviarli al riciclo o al recupero energetico, e in ogni caso scegliendo sempre impianti con standard ambientali e tecnici pari a quelli comunitari. È la prassi che sembrerebbe seguire Corepla, il Consorzio nazionale per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica che gestisce i rifiuti plastici urbani nel 92% dei Comuni italiani: nei suoi report la Turchia non figura tra le destinazioni citate esplicitamente per l’export. Tuttavia, il flusso in uscita non si ferma, e tonnellate di scarti dall’origine non del tutto chiara continuano a raggiungere Paesi perlopiù impreparati ad accoglierli. È così che i rifiuti italiani finiscono per alimentare discariche abusive sempre più grandi e inquinanti, come quella di Smirne, su cui Greenpeace aveva acceso i riflettori nel 2019.
Il prossimo 25 novembre inizierà a Busan, in Corea del Sud, l’ultimo round per la definizione di un Trattato globale sulla plastica, sotto l’egida delle Nazioni Unite: oggi più che mai, ricorda Greenpeace, è fondamentale stabilire misure concrete e globali per prevenire l’inquinamento da plastica in ogni fase della produzione e dello smaltimento. Ogni Paese deve essere responsabile della gestione dei propri rifiuti, servono strumenti legislativi che coprano l’intero ciclo di vita della plastica, bisogna ridurre di almeno il 75% la produzione totale di plastica entro il 2040 e occorre al più presto vincolare le grandi multinazionali a vendere sempre più prodotti sfusi o con packaging riutilizzabile.